Dalla crisi alla crescita: una strategia per l’Italia
Sperando che sia finito il tempo delle parole e che si passi ai fatti, nell’intervento di Ignazio Visco, Governatore della Banca d’Italia alla Consultazione nazionale che si è svolta a Roma la scorsa settimana (Stati generali è il nome con il quale è stata reclamizzata) ci sono tutti gli elementi utili per un programma di ripartenza dell’Italia che va molto oltre il superamento degli effetti della pandemia da Covid 19.
Gli ostacoli e i limiti dello sviluppo non derivano certo dall’ emergenza sanitaria. Una rinascita richiede, quindi, lucidità e determinazione nonché coraggio per vincere le enormi resistenze che un Paese fondamentalmente conservatore oppone a qualsiasi cambiamento. Di seguito una sintesi del discorso di Visco.
Per comprendere la gravità della situazione bisogna considerare che, quest’anno, si stima a livello globale la più diffusa diminuzione del reddito in termini pro capite dal 1870.
Per l’Italia il calo del PIL nel 2020 potrebbe oscillare tra il 9,2 e il 13,1 per cento.
Una ripresa ci sarà, ma, sulle prospettive per il prossimo biennio grava un’incertezza molto elevata, a partire da quella sulla evoluzione dei contagi.
L’incertezza non deve però costituire una scusa per non agire. È, al contrario, una ragione ulteriore per rafforzare da subito l’economia e per muoversi lungo un disegno organico di riforme, che per molti aspetti è già stato tracciato e che richiederà tempo per manifestare i suoi effetti.
Dobbiamo tenere presenti alcuni dati positivi della situazione italiana. Innanzitutto le infrastrutture di rete che, nonostante ritardi e carenze in diverse aree del Paese, hanno negli ultimi mesi tenuto. La flessibilità del settore manifatturiero già messa duramente alla prova dalle crisi del 2008 e del 2011-12. Il debito netto con l’estero oggi pressoché nullo. L’elevata ricchezza reale e finanziaria delle famiglie. Il debito privato di famiglie e imprese che è più basso in Italia rispetto a quello di Francia, Germania e Olanda.
Il principale problema della nostra economia è, da oltre 20 anni, quello della bassa crescita, a sua volta riflesso della debolissima dinamica della produttività.
Le proiezioni demografiche non sono favorevoli: pur tenendo conto dell’apporto dell’immigrazione (stimato dall’Eurostat in circa 200.000 persone in media all’anno), la popolazione di età compresa tra 15 e 64 anni si ridurrà di oltre 3 milioni nei prossimi quindici anni. Riduzione in parte compensata dall’aumento dell’occupazione femminile e dall’allungamento della vita lavorativa.
Per ottenere una crescita del PIL di almeno l’1,5 per cento annuo servirà, quindi, un incremento medio della produttività del lavoro di quasi un punto percentuale all’anno. Obiettivo alla nostra portata, ma se si sciolgono quei nodi strutturali che per troppo tempo non siamo stati capaci di allentare e che hanno assunto un peso crescente nel nuovo contesto tecnologico e di integrazione internazionale.
I ritardi di produttività accumulati non possono essere colmati con politiche monetarie e di bilancio espansive perché queste non possono di per sé innalzare la dinamica della produttività nel lungo periodo.
Il sostegno alle famiglie e alle imprese è stato cruciale nell’emergenza, ma è fondamentale, adesso, stabilire il percorso migliore per innalzare il potenziale di crescita sapendo che, spesso, i costi dei cambiamenti strutturali sono immediati, mentre i benefici maturano gradualmente, con tempi anche non brevi.
Le risorse vanno indirizzate dove è possibile ottenere i rendimenti sociali più elevati. Va certamente recuperato il ritardo accumulato nelle infrastrutture tradizionali, da rinnovare e rendere funzionali, ma è possibile individuare almeno tre macro aree nelle quali gli interventi appaiono altrettanto urgenti.
1 La prima riguarda la pubblica amministrazione. Serve un miglioramento profondo nella qualità e nei tempi dei servizi offerti: alle necessarie semplificazioni delle procedure, di cui tanto si parla, bisogna accompagnare la giusta attribuzione di responsabilità e la loro consapevole assunzione da parte di funzionari, dirigenti e amministratori pubblici. Serve una burocrazia buona, non assente. E serve una giustizia più veloce, in grado di assicurare il pieno rispetto delle regole. Occorre agire sulla tecnologia accelerando la digitalizzazione e sulle risorse umane con l’ingresso di giovani motivati e con competenze elevate e differenziate e da accrescere investendo sulla formazione del personale.
2 La seconda area è quella dell’innovazione. La rete fissa a banda larga ultraveloce raggiunge ancora meno di un quarto delle famiglie italiane, contro il 60 per cento della media europea, e con una penalizzazione particolarmente accentuata nel Mezzogiorno. Vi è poi la transizione necessaria verso un’economia più rispettosa dell’ambiente e con minori emissioni di gas inquinanti.
La qualità del capitale umano è un punto fondamentale. Scuola e università sono i punti essenziali per raggiungerla. Siamo al penultimo posto nell’Unione europea per quota di giovani tra i 25 e i 34 anni con un titolo di studio terziario, al primo per incidenza di giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiano e non lavorano. La preparazione e la motivazione degli insegnanti sono essenziali. Gli edifici scolastici non sono in molti casi sicuri; dovrebbero, invece, essere confortevoli e tecnologicamente adeguati.
Non di sola istruzione si tratta però. L’investimento in conoscenza si dovrà fare lungo l’arco di tutta la vita.
Infine, bisogna puntare sulla qualità della ricerca italiana. Lo Stato investe oggi nelle università circa 8 miliardi, la metà in rapporto al PIL rispetto a quanto fanno i paesi a noi più vicini. Il settore produttivo investe nella ricerca appena lo 0,9 per cento del PIL, contro l’1,7 per cento della media dei paesi dell’OCSE.
3 La terza area da considerare riguarda la salvaguardia del nostro patrimonio naturale e storico-artistico, che costituisce l’identità stessa dell’Italia. La crisi del settore turistico ne ha reso immediatamente percepibile la rilevanza anche economica.
Con quali risorse intervenire? Possono venire dal bilancio pubblico, da un recupero di base imponibile, da una riduzione della spesa per interessi sui titoli di Stato, da un uso pragmatico e accorto dei fondi europei.
Senza gli interessi sul debito, la spesa pubblica italiana è in linea con quella media dell’area dell’euro, anche se il peso di quella pensionistica è più elevato ed è destinato a crescere ancora sulla spinta dell’invecchiamento della popolazione. Anche il livello delle entrate fiscali è allineato alla media degli altri paesi, pur se è più elevato il cuneo fiscale sul lavoro.
Ciò che più ci differenzia dalle altre economie avanzate è l’incidenza dell’economia sommersa, dell’illegalità e dell’evasione fiscale, che si traduce in una pressione fiscale effettiva troppo elevata per quanti rispettano pienamente le regole e in un freno alla concorrenza e all’efficienza.
Un profondo ripensamento della struttura della tassazione, che tenga conto del rinnovamento del sistema di protezione sociale, deve porsi l’obiettivo di ricomporre il carico fiscale a beneficio dei fattori produttivi.
Il vero problema del debito pubblico è il rapporto con il Pil che è alimentato dal basso potenziale di crescita del Paese il quale, a sua volta, ne frena l’aumento.
Le difficoltà italiane sono amplificate nel Mezzogiorno. Nelle regioni meridionali deve innanzitutto migliorare l’ambiente in cui le imprese operano, in primo luogo con riferimento alla tutela della legalità. È più ampio il ritardo tecnologico da colmare, inferiore l’efficacia delle politiche pubbliche: il 75 per cento delle “opere incompiute” è localizzato in queste regioni, alle quali fa capo solo il 30 per cento dei lavori pubblici. Il Mezzogiorno sta subendo un impoverimento per l’emigrazione delle risorse più giovani e preparate, in massima parte verso il Centro Nord del Paese.
Bisogna intervenire sui fattori alla base del ritardo, non ci si può affidare solo ai tentativi di compensarlo con trasferimenti monetari. Gli effetti sull’economia meridionale di un’azione di rinnovamento dell’amministrazione pubblica, della scuola e delle infrastrutture, tradizionali e innovative, possono essere rilevantissimi.
Infine i fondi europei non potranno mai essere “gratuiti”: un debito dell’Unione europea è un debito di tutti i paesi membri e l’Italia contribuirà sempre in misura importante al finanziamento delle iniziative comunitarie, perché è la terza economia dell’Unione. I benefici degli strumenti di sostegno europei vanno valutati soprattutto per la possibilità che offrono di inserire lo sforzo nazionale in una strategia di sviluppo comune: è questa l’unica via per rispondere alle sfide globali che ci attendono, non solo geopolitiche, tecnologiche, ambientali, ma anche sanitarie, come abbiamo duramente appreso in questi mesi
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