Ostaggi o sicurezza: il dilemma di Israele
Hamas ha ucciso altri sei degli ostaggi catturati il 7 ottobre 2023. I familiari dei sequestrati protestano nuovamente contro il premier israeliano Netanyahu e, di nuovo, una parte rilevante dei loro connazionali li appoggia con manifestazioni e scioperi in tutto il Paese. Essi accusano il governo di non avere dato priorità assoluta, nei negoziati, al rilascio immediato dei prigionieri, a qualunque costo. Il presidente degli Usa, Biden, è stato ondivago; dapprima se l’è presa contro Hamas e ha promesso che l’omicidio dello statunitense che faceva parte del sestetto delle vittime sarà vendicato, ma il giorno dopo ha soggiunto che Israele non ha fatto abbastanza al tavolo delle trattative. La sua vice nonché candidata alla Casa Bianca, Harris, ha dichiarato che la minaccia costituita da Hamas va estirpata e non si può lasciare ad Hamas il controllo di Gaza, sicché pare più in linea con Netanyahu che con i dimostranti. Trump tace, per ora.
È doveroso che le istituzioni israeliane si scusino per essersi fatte cogliere alla sprovvista il giorno dell’attacco palestinese, ma tra le carenze del prima e le necessità del dopo non c’è un nesso. Si ricordi inoltre che alcuni ostaggi sono stati liberati grazie all’intervento armato nella Striscia di Gaza. Il governo israeliano non è contrario per principio alla trattativa, la quale infatti è in corso. Trovare un accordo è difficile quando si tratta di acerrimi nemici, ambedue convinti che sia in gioco la loro stessa sopravvivenza. Non è dato conoscere nei dettagli l’andamento dei colloqui di pace e la condotta dei rispettivi negoziatori israeliani e palestinesi. In base alle informazioni disponibili, sembra che la responsabilità del protrarsi delle ostilità non sia unilaterale e che ciascuna delle parti abbia posto condizioni ritenute inaccettabili dall’altra. I dimostranti israeliani, invero, non chiedono di modificare le richieste di Israele alla controparte, bensì di rinunciare a presentarne.
Gli striscioni che trasformano il Prime Minister in Crime Minister compiono una traslazione del peso dei crimini contro gli ostaggi, dalle spalle di Sinwar a quelle di Netanyahu. In Italia conosciamo fenomeni del genere. Nel 1974 i familiari del giudice Sossi rapito dalle Br lamentarono che lo Stato, rifiutando di cedere al ricatto dei terroristi, li aveva abbandonati. Nel 1978, stesso atteggiamento da parte di alcuni dei familiari di Moro. Allora la grande maggioranza era a favore della fermezza ma poi i tempi sono cambiati: nella nostra epoca intrisa di populismo riscuotono consensi i dietrologi che criminalizzano la scelta fatta e alcuni studiosi scrivono che la fermezza appare loro non solo sbagliata, ma addirittura incomprensibile.
I familiari dei sequestrati meritano il massimo del rispetto e dell’umana comprensione. Nella democratica Israele è giusto che il punto di vista loro e di chi lo condivide sia tenuto in seria considerazione. Non di meno, proprio perché Israele è una democrazia rappresentativa, le loro istanze non devono diventare vincolanti. Resta fermo che chi governa ha il dovere di pensare al domani, oltre che all’oggi.
L’opposizione palestinese contro la sanguinaria Hamas, se esiste, non si è vista. A Gaza nessuna protesta né per l’esecuzione degli ostaggi ebrei né contro chi un anno fa espose i suoi abitanti alle prevedibili reazioni israeliane. Il ritrovamento dei sei corpi avrebbe potuto e dovuto essere un’occasione per dissociarsi da Hamas ed è stata sprecata.
Vladimiro Satta (articolo pubblicato su La Ragione il 5 settembre 2024)
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