Referendum vo’ cercando che è sì comodo
Sono tempi di referendum questi. Dal Regno Unito alla Scozia, alla Catalogna, alla Lombardia e al Veneto. Allo scontento si apre la valvola di sfogo del voto. Un voto qualunque anche se non si sa a cosa può servire, anche se va oltre la legalità e la ragionevolezza, anche se sarebbe inutile. Un voto conferisce identità, fa sentire uniti e determinati. Sembra che si dia la parola al popolo a prescindere dall’effettiva utilità. Un voto può servire a dare forza ai miti di popolazioni autoctone (i lombardi, i veneti) che sono tali solo in parte.
Domenica 22 si è svolto l’atteso referendum nelle due regioni a direzione leghista, Veneto e Lombardia. L’affluenza è stata significativa in un caso e scarsa nell’altro, ma, come già detto, conta che ai cittadini sia stata trasmessa l’impressione che il voto servisse a rendere più forte la rivendicazione ormai esplicita (e tradizionale) della Lega: tenersi i soldi. Come è noto l’art 116 della Costituzione prevede che le regioni possano raggiungere un’intesa con lo Stato per vedersi attribuite ulteriori forme e condizioni di autonomia in relazione alle materie nelle quali è prevista la legislazione concorrente. Non c’è dunque bisogno di alcun voto popolare. Chi lo sollecita in realtà sta lavorando per sé, per ampliare il consenso al proprio partito (o all’interno del partito). Solo che rischia di fare un guaio, perché si comincia in un modo e poi si finisce per disseppellire l’ascia di guerra dell’indipendenza della Padania di bossiana memoria magari passando attraverso la battaglia per lo statuto speciale (un altro modo per tenersi i soldi).
Salvini che ambisce a diventare il leader nazionale del centrodestra ha detto che analoga rivendicazione sarà fatta dalla Lega in tutte le regioni a statuto ordinario. Luca Zaia dice che l’obiettivo è tenersi i 9/10 delle entrate fiscali riscosse in regione che è come dire indipendenza dall’Italia. Altre forze politiche riconoscono che la strada giusta sarebbe quella del federalismo. Ma tutto ciò ha senso? Sentir parlare di federalismo in una nazione di 300.000 km quadrati suddivisi in 20 regioni che dovrebbero trasformarsi in 20 stati federati suona un po’ ridicolo e un po’ incute timore.
Se un osservatore neutrale guardasse all’esperienza del regionalismo italiano gli verrebbe più facilmente in mente l’idea di diminuire il numero delle regioni magari accorpandole in macro aree territoriali ed eliminare quelle speciali che non hanno ormai più nessuna giustificazione. Potrebbe anche pensare di abolire del tutto le regioni e dare nuovo valore alle province e ai comuni. Dopo tutto sono questi gli enti di prossimità più vicini ai cittadini e quelli che affondano le loro radici nella storia. Le regioni non possiedono nessuno di questi caratteri. Le regioni non sono vicine ai cittadini e sono state formate per legge nemmeno cinquant’anni fa.
Nemmeno si può dire che le regioni nei decenni che sono passati dalla loro istituzione si siano distinte come esempio virtuoso di buon governo. La stessa Lombardia con quello che è successo nel campo della sanità e con le vicende che hanno toccato i massimi esponenti della Regione a cominciare dal presidente Formigoni non ha certo dato una bella immagine di sè.
E allora perché appaiono tutti molto comprensivi verso le rivendicazioni di maggiore autonomia nel nord? Una spiegazione potrebbe essere che effettivamente nei conti del dare e dell’avere uno squilibrio tra nord e sud c’è e che, però, non lo si può modificare. Quindi che si parli di autonomia, ma senza toccare i conti. C’è poi una cautela perché la gente non si fida, ha timore, cerca protezione in un livello istituzionale col quale identificarsi e che sente in grado di farsi rispettare. E così si cerca di assecondarla. Infine gli esempi di spesa pubblica virtuosa sono rari, ma nelle regioni del sud sono l’eccezione e quindi è difficile difendere la ripartizione delle risorse in nome della solidarietà.
Nel complesso però questa diatriba appare stucchevole e datata. Se si vuole parlare di soldi e di vantaggi bisogna dire che i conti del dare e dell’avere sono molto più complessi di come appaiono. Inoltre gli effetti di fare sistema all’interno di uno Stato nazionale sono meno visibili, ma pesano. Basti pensare al debito pubblico, alle opere grandi e piccole pagate con i soldi dello Stato, alla previdenza, alla forza di un’economia che appartiene nel suo complesso non ad una regione, ma ad uno degli stati maggiormente industrializzati.
Continuare sulla strada del federalismo riparatore dei pretesi torti che subirebbe il nord non porta da nessuna parte. La risposta più sensata sarebbe quella di far funzionare tutto lo Stato regioni, comuni, città metropolitane e province compresi. Il risanamento e il riequilibrio della spesa pubblica ne costituisce uno dei passaggi fondamentali. Il federalismo può essere la soluzione? Forse può essere parte della soluzione, ma non come vorrebbe farlo la Lega puntando sul residuo fiscale di un paio di regioni e nemmeno come lo sta facendo da anni la Sicilia e meno che mai facendo la fotocopia del regionalismo e chiamandolo federalismo. Fino a che non ci sarà una maggioranza di governo forte capace di mettere mano all’assetto istituzionale collegando autonomia a responsabilità, poteri e doveri si discuterà a vuoto tentando di lisciare il pelo alle invettive contro lo Stato centrale perché altra risposta non potrà esserci
Claudio Lombardi
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