Ucraina: la rivoluzione di Maidan (parte 5)
Alcuni estratti da un articolo di Andrea Braschayko pubblicato su www.valigiablu.it
(Le quattro parti precedenti si trovano qui , qui , qui e qui)
La strage di Odessa del 2 maggio 2014
Anche Janukovyč e il Partito delle Regioni useranno metodi sporchi per sabotare Maidan. Vengono inviati dei provocatori chiamati titushky, picchiatori e combattenti di arti marziali assoldati dal regime per infiltrarsi e violentare i manifestanti antigoverno nelle varie piazze d’Ucraina, non solo a Maidan. Saranno presenti anche a Odessa il 2 maggio, quando scoppia uno dei giorni più sanguinosi, indecifrabili e, proprio per questi motivi, manipolati dalla propaganda russa negli ultimi nove anni.
Come ricorda un rapporto delle Nazioni Unite sugli scontri di Odessa, il clima in città era teso già dal 19 febbraio, quando un gruppo di titushky attaccò un gruppo di manifestanti filo-europei della città. Le manifestazioni parallele riuscirono a procedere senza incidenti nei mesi successivi, fino alla deflagrazione del 2 maggio. Durante la mattinata, gli ultras di Metalist Kharkiv e Chernomorets Odessa si riuniscono prima di una partita del campionato di calcio. Organizzano una marcia a favore dell’unità del paese.
Sono ovviamente presenti gruppi radicali fra i tifosi (e molti di loro andranno a combattere nei battaglioni di volontari in Donbass), così come comuni cittadini di Odessa, per un totale circa duemila persone. Durante il corteo vengono attaccate da trecento attivisti filorussi ben equipaggiati e armati.
L’escalation degli scontri avviene, poche ore dopo, alla Casa dei Sindacati. Lanci di molotov da entrambe le parti portano a un incendio in cui muoiono 48 persone, soprattutto filorussi asserragliati nell’edificio, morti di asfissia. In pochi minuti, dalla guerra si passa al salvataggio, come ricorda un reportage del giornalista odessita Sergey Dibrov: gli attivisti pro-ucraini chiamano i pompieri e aiutano gli avversari a uscire (solo poche decine di estremisti continuano la guerriglia urbana a oltranza).
Il giorno successivo, negli ospedali di Odessa, i cittadini porteranno aiuti ai feriti, senza distinzioni di credo politico. Un gruppo investigativo indipendente – con attivisti di entrambe le fazioni, un fatto molto raro in Ucraina – ha parlato di “deliberate provocazioni filorusse” allo scopo di ricreare lo scenario di Donec’k (divampato già il 6 aprile) a Odessa.
Nel clima di tensione di quei mesi, la propaganda russa userà la tragedia per iniziare a parlare di genocidio della popolazione russofona; una versione sconfessata dal Consiglio d’Europa, dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani e dall’OSCE. In Ucraina, al contrario, vince la narrazione per cui fra i morti filorussi vi erano soprattutto cittadini russi e della Transnistria; non era così, la maggioranza erano cittadini di Odessa.
Ciò ha messo a dura prova il sistema giudiziario e la sua indipendenza politica: a sottolinearlo furono molti giornalisti ucraini di Radio Free Europe, non i propagandisti di RIA Novosti. Come evidenzia lo stesso rapporto UN, le indagini giudiziarie in Ucraina sui responsabili della tragedia hanno avuto delle distorsioni nei confronti dei separatisti (che nel 2017 verranno comunque tutti scagionati), mentre solo un uomo del rally unitario fu arrestato, per aver sparato dei colpi di arma da fuoco.
Dall’AntiMaidan al separatismo filorusso: l’opinione degli ucraini
Come scrive l’analista ed esperto di Ucraina Giorgio Cella nelle conclusioni del suo libro Storia e geopolitica della crisi ucraina (Carocci editore, 2021):
“Con Euromaidan le antiche contrapposizioni identitarie e geopolitiche nazionali si sono esacerbate […] mettendo grande pressione su quella già fragile struttura statuale nata nel 1991, la quale, in mancanza di un potere centrale capace di una gestione armonica e condivisa delle diverse regioni e delle loro differenti sensibilità identitarie, tende periodicamente verso crisi statuali di più o meno grande gravità”.
Un importante sondaggio del principale think-tank ucraino Razumkov Center, svolto nel 2020, analizza la percezione degli eventi di Maidan a sei anni dalla loro conclusione. Il 23% degli intervistati continuava a ritenere quello di Kyiv un colpo di Stato, mentre il 17,7% un cambio di regime con metodi non del tutto legittimi, sebbene dettati da motivi di necessità giustificabili. Tornando indietro, circa il 38% sosterrebbe il Maidan, e solo il 10% l’AntiMaidan. La percentuale più alta, quasi il 40%, è quella di chi non parteciperebbe a nessuna delle due proteste.
I dati campionari, seppur necessari di una lettura più ampia e contestualizzata, contribuiscono a ricostruire la frammentazione del pensiero politico e culturale ucraino, caratterizzato da diversi background regionali. Una frammentazione che non significa però automaticamente russofilia e istanze separatiste, come molti ipotizzano, strumentalmente, anche in Italia. L’evidenza suggerisce, piuttosto, come l’identità linguistica e l’autodefinizione etnica siano non sovrapponibili nel caso ucraino (e post-sovietico in genere).
Un ampio campione dell’Istituto sociologico di Kyiv evidenzia come nel 2014 solo tre regioni registravano una percentuale superiore al 10% fra coloro che desideravano un’annessione della propria oblast’ alla Russia. A Donec’k sono il 30%, a Luhans’k il 28% e appena il 16% della popolazione a Kharkiv, dove come a Odessa (7%), Dnipro (7%) e Kherson (4%) le proteste filorusse e anti-Maidan non riuscirono a divampare in fuochi separatisti più ampi, facendo fallire il progetto della Novorossija sul nascere.
Queste percentuali, peraltro, rimangono stabili nel 2021-2022 (e crolleranno drasticamente dopo il 24 febbraio, quando gran parte della quinta colonna filorussa volterà le spalle a Putin), segno di come le politiche di Kyiv per l’unità nazionale non abbiano condizionato chi aveva già preso una scelta nei confronti della Russia.
La propaganda russa ha infatti insistito sin dal 2014 sulla sovrapposizione tra russofonìa e identità russa, giocando sul mito delle “due Ucraine” nella propria cornice ideologica del russkij mir. Si puntava, cioè, a postulare come inconciliabili le due anime del paese, quella occidentale e orientale, alla base di un presunto conflitto etnico, in cui una parte chiedeva esplicitamente l’intervento diretto di Mosca: seppure siano state molto eterogenee le posizioni attorno alla nozione di cittadinanza ucraina, solamente una minoranza marginale della popolazione residente nel paese attendeva le truppe russe sul proprio suolo.
Ripartire dagli eventi bellici del 2014, nella seconda parte, permetterà di comprendere fino in fondo le cause per cui i piani russi hanno parzialmente successo in Crimea e Donbass, ma vanno incontro a una clamoroso fallimento in altre oblast’ russofone e culturalmente più vicine a Mosca come Odessa, Kharkiv, Dnipro e Zaporizhzhya, i cui abitanti sono pressoché indistinguibili da quelli di Donec’k e Luhans’k. Ponendosi come obiettivo quello di spaccare l’Ucraina nel 2014, l’operato russo è riuscito a paradossalmente a uniformare l’appartenenza a Kyiv e rafforzare l’estraneità al Cremlino di larghe fasce della popolazione dall’identità ibrida, recidendo per sempre i loro legami – pur presenti, quelli familiari, linguistici, culturali – con la Russia.
(fine)
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