Ucraina: la rivoluzione di Maidan (parte 3)
Alcuni estratti da un articolo di Andrea Braschayko pubblicato su www.valigiablu.it
(Le due parti precedenti si trovano qui e qui)
Chi, e per cosa, si protesta a Maidan nell’inverno tra il 2013 e il 2014?
Difficile trovare un fronte unico: la piazza è eterogenea, prevalentemente giovane e cittadina, europeista e pro-democratica, espressione di una società civile stanca del conservatorismo nostalgico di Janukovyč (e del predecessore Kuchma). La retorica rivoluzionaria è spesso anticomunista, soprattutto fra le ali più radicali e nazionaliste. Pure dal resto della piazza, però, il Partito Comunista Ucraino di Petro Symonenko viene identificato come una nomenclatura corrotta e vicina agli oligarchi del Donbass, un ferreo alleato dell’establishment. Inoltre, come scrive l’analista Denys Gobrich, su OpenDemocracy, il PCU, “mentre condannava il nazionalismo a parole, diventava il principale sostenitore del nazionalismo filo-russo, proclamando la superiorità del popolo slavo rispetto ad altri gruppi etnici e diffondendo l’islamofobia in Crimea”.
I leader dell’opposizione (Arsenij Jatseniuk, Yuliya Tymoshenko, Vitalij Klitschko) che provano a farsi portavoce delle proteste vengono volentieri fischiati e contestati. Lentamente riescono però a cooptare le istanze della piazza (e in ciò il più scaltro sarà il futuro presidente Petro Porošenko, con un passato proprio nel partito di Janukovyč) per chiedere le dimissioni del presidente in carica.
Il fronte di opposizione nella Verkhovna Rada (il parlamento monocamerale ucraino) era esso stesso finanziato dagli oligarchi “esclusi” dal clan del Donbass (come l’oligarca ebreo Ihor Kolomojskij), mentre molte frange di Maidan, sia estremiste che altre più liberali, avevano posizioni apertamente antisistema e populiste.
Gli obiettivi iniziali sono più alti di un semplice cambio di regime, e dopo la repressione poliziesca non puntano nemmeno a rimettere semplicemente sui giusti binari il processo di integrazione europea. A Maidan si invoca un cambiamento radicale dell’Ucraina. Una rivoluzione eterogenea che si aggrega intorno ad alcuni punti comuni: una feroce lotta alla corruzione e alla violenza statale, coperta da un sistema giudiziario inaffidabile.
Le bandiere rossonere dei nazionalisti di estrema destra di Pravij Sektor e quelle verdi di Svoboda sono presenti, ma eclissate da quelle ucraine ed europee. I giovani radicali saranno però una parte rumorosa dei gruppi di autodifesa di Maidan, organizzati per rispondere dalla violenza brutale della polizia Berkut sin dal 30 novembre. Non sarà certo l’unica: il primo manifestante a morire in piazza sarà uno studente ventunenne di origini armene, Serhiy Nahoyan, senza alcuna affiliazione politica.
La propaganda russa tenterà di dipingere una piazza monopolizzata dai “nazifascisti” Pravij Sektor, benché l’ideologia culturale del nazionalismo radicale ucraino sia ben più complessa del richiamo alla parentesi collaborazionista con le SS.
Il Partito delle Regioni e i suoi sostenitori insistono sulla tesi per cui i miliziani avrebbero provocato la polizia allo scontro, innescando per primi l’ondata di violenza. Fra i 79 ospedalizzati della notte del 30 novembre ci sono però studenti e studentesse, e non militanti del movimento nazionalista – altre centinaia si rifugeranno, inseguiti dai poliziotti antisommossa, nel Monastero dorato di San Michele per l’intera notte, poche ore prima che una marea di persone si riversi a Kyiv per chiedere le dimissioni dei vertici della polizia (e, per i più oltranzisti, del governo).
Il ministro dell’interno Vitaliy Zacharčenko rifiuterà di commentare l’accaduto (lasciando diffondere al sito del ministero una “prova” della provocazione dei manifestanti: il lancio di uova di un piccolo gruppo contro i poliziotti). Le responsabilità vengono scaricate sul capo della polizia di Kyiv. Quest’ultimo, nel rifiutare di dimettersi dall’incarico, ammetterà come la polizia non si sia «comportata nei migliore dei modi». Tuttavia, userà come scusante la stretta necessità di sgomberare la piazza per installare l’albero di Natale. Alle tre del mattino, tra il sabato e la domenica.
Cosa determina la guerriglia di Maidan nel febbraio 2014?
I manifestanti passeranno a Maidan un lungo inverno, fra giorni di proteste pacifiche e scontri, nei quali i manifestanti costruiscono cordoni davanti alla stessa polizia poiché «sono dei ragazzi proprio come noi», mentre altri, più radicali, promettono di non toccare (con un manganello in mano e una balaklava improvvisata in viso) le forze dell’ordine, alla condizione che queste liberino la strada al corteo. Sono le immagini che si susseguono in un servizio del principale telegiornale ucraino, mentre alcune signore anziane urlano slogan europeisti e antigovernativi. Ciò che rimane è un ritratto potente dell’eterogeneità della piazza e dell’Ucraina stessa.
Nel gennaio del 2014, il Parlamento a maggioranza regionalista approva le leggi repressive contro la libertà di parola e di stampa. Un copia-incolla del modus operandi del Cremlino verso l’opposizione russa, persino per quanto riguarda l’individuazione della figura giuridica di agente straniero per giornalisti e ONG. La situazione precipita definitivamente il 20 febbraio. I disordini aumentano quando dei cecchini, apparsi sui tetti dei palazzi delle vie centrali di Bankova e Instituts’ka, cominciano a sparare sulla folla. (…)
Fra i manifestanti, sono almeno 100 i morti (la Sotnja celeste, cioè “centinaio” in ucraino, diverrà una memoria collettiva della Rivoluzione) e oltre 2500 i feriti, riferirà Amnesty anni dopo, puntualizzando come molti di essi non abbiano ricevuto giustizia per i crimini commessi dalla polizia ucraina nemmeno dopo la fine del regime filorusso, a causa dei numerosi depistaggi nelle indagini. (…)
Putin accusa gli ucraini di aver abbattuto il volo civile MH17 in Donbass (ma l’inchiesta internazionale accerterà le responsabilità di Mosca) e lascia intendere – senza nessun indizio – che sui tetti di Kyiv i cecchini non fossero stati mandati da Janukovyč, ma dall’opposizione, telecomandata dagli americani, allo scopo di destabilizzare la piazza. (…)
La maggior parte dell’unità di Berkut impiegata per reprimere la protesta si è rifugiata in Russia, la quale ha ovviamente rifiutato l’estradizione. “Abbiamo solo fatto il nostro lavoro: difendere un governo eletto dal popolo” dichiarò un ufficiale intervistato da un televisione tedesca. Le evidenze e i documenti che avrebbero aiutato Kyiv a individuare i responsabili sono però in larga parte spariti.
Alla fine di febbraio, la rivoluzione popolare vince, senza però aver mai espresso un leader nella protesta. La vittoria diventa ufficiale quando Janukovyč fugge dal paese, in segreto, durante la notte del 22 febbraio. Si rifugia a Rostov sul Don, in Russia, e sarà Putin stesso a dire di averlo aiutato a scappare.
(continua)
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