Il Valle è il messaggio. Sì, ma è sbagliato
Ha ragione Vincenzo Vita nell’articolo qui a fianco: il Valle è il messaggio. Mi permetto di correggere mettendo al plurale la frase: il Valle è i messaggi. In che senso? Semplice: all’inizio l’occupazione del teatro Valle ha avuto il senso di una protesta e di una proposta cui si è aggiunta la manifestazione di una capacità. La protesta contro lo sfascio del ruolo pubblico verso le attività teatrali (scioglimento dell’ETI, confusione sul futuro dei teatri che aveva in gestione). La proposta di un modo innovativo di gestire un teatro pubblico attraverso il coinvolgimento diretto dei lavoratori dello spettacolo. La dimostrazione della capacità di farlo.
Tutto ciò è il primo messaggio. Il secondo è che il mantenimento per anni dello status di occupazione di un bene pubblico non dà vita ad una terza via tra pubblico e privato, ma dilata un atto di forza che, col tempo, diventa un puro vantaggio a favore di un gruppo di persone. Con il denaro pubblico. Bisogna ascoltare ciò che del Valle dicono i gestori dei teatri romani che faticano a sopravvivere per comprendere che l’occupazione permanente non è accettabile. L’aver creato la Fondazione teatro Valle bene comune, ma non essere usciti dallo stato di occupazione, non cambia di nulla la situazione anche se è una delle condizioni per partecipare ad un bando per l’affidamento della struttura.
La vicenda aiuta a mettere a fuoco due temi di cui spesso si parla per slogan: la pratica delle occupazioni e i beni comuni. Circa questi ultimi il gran parlare degli ultimi anni non ha fatto molta chiarezza circa il loro status nell’ordinamento. Inoltre, se parlando di aria e di ambiente, la percezione di una differenza tra beni di proprietà pubblica e beni comuni è comprensibile così non è se si parla di un teatro. Ma anche se si vuole includere il patrimonio culturale (ma in cosa si traduce esattamente? Secondo alcuni anche un vecchio cinema abbandonato lo è) tra i beni comuni resta il fatto che bene comune non significa bene a disposizione di chiunque lo voglia prendere. Ossia, anche se il bene è comune, occorre sempre una mediazione giuridica “pubblica” per deciderne la gestione. Con buona pace dei giuristi che teorizzano un vero e proprio diritto all’occupazione non si sa bene in nome di quali principi costituzionali o di semplice razionalità giuridica.
Tema difficile quello delle occupazioni perché spesso esprime situazioni di disperazione e di profondo disagio cui il potere pubblico non riesce a dare risposte. Purtroppo di fatto le occupazioni costituiscono sempre una forzatura, uno scavalcamento dei poteri pubblici sia nel caso che si occupi un edificio pubblico sia che se ne occupi uno privato. Inoltre, il ricorso all’occupazione segna sempre, in qualche modo, il fallimento della loro missione. La forzatura, però, alla fine si traduce nella sostituzione della volontà di un gruppo di persone alla volontà che si condensa nelle istituzioni e nelle amministrazioni pubbliche. Di qui a definirne l’illegalità il passo è breve e scontato.
Comunque, se si tratta di un atto di protesta è accettabile nel quadro dei conflitti democratici. Ma deve durare il tempo della protesta. Se si trasforma in un’occupazione stabile e se non si riesce a dargli una configurazione giuridica (affidamento, concessione ecc) allora è un atto contro tutti quelli che il pubblico dovrebbe garantire.
In un regime democratico bisognerebbe sempre privilegiare gli strumenti della legalità. La pratica delle occupazioni va in direzione contraria emarginando i diritti di chi detiene una legittima aspettativa, per esempio, di ottenere un alloggio di edilizia pubblica. Diverso è il caso delle occupazioni di stabili abbandonati che, comunque, dovrebbero tradursi sempre in accordi con i proprietari, sia pubblici che privati, per dare un titolo giuridico all’utilizzo degli edifici.
In definitiva trasformare un’occupazione di protesta in una situazione permanente è una scelta inaccettabile perché mortifica tutti quelli che si affidano alla legalità per veder rispettai i loro diritti
Claudio Lombardi
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