La divisa di Conte e quella di Zelensky

Il 27 febbraio, in una sala di Montecitorio, un gruppo di appartenenti alla comunità ucraina ha intonato tra le lacrime il proprio inno nazionale. Si era appena conclusa la proiezione di “20 Days in Mariupol”, il documentario candidato agli Oscar 2024, girato da alcuni giornalisti di Associated Press entrati nella città portuale ucraina poco prima che venisse posta sotto assedio e poi rimasti lì, intrappolati in un ospedale circondato dagli invasori russi. Le immagini raccolte e diffuse da quella squadra di reporter hanno svolto un ruolo fondamentale per smentire la disinformazione russa sull’assedio di Mariupol.

Piace pensare che quest’iniziativa, resa possibile dal meritorio e coerente impegno dei parlamentari piddini Lia Quartapelle e Andrea Casu, abbia potuto per qualche momento far percepire agli ucraini presenti una comprensione ed una solidale accoglienza del loro dolore sensibilmente maggiori rispetto alla diffidente ed avara empatia spesso loro riservata. Ma soprattutto viene istintivo pregare affinché quelle stesse persone non abbiano avuto modo di essere ferite, di lì a poche ore, dall’ascolto di parole che segnano una nuova frontiera della grettezza, dell’ignavia e della viltà di vasti settori della politica e della società italiana.

Ospite di uno dei tanti salotti televisivi in cui si appalesa la drammatica inadeguatezza del nostro dibattito pubblico, Giuseppe Conte, un uomo che ha presieduto due governi della Repubblica e che oggi si oppone in ogni sede ed occasione all’invio di armi all’Ucraina invasa e devastata, ha sventuratamente indicato, con levantina e velleitaria  presunzione di risultare arguto e antiretorico, l’aiuto prioritario da fornire agli ucraini e al loro leader : “Il modo migliore per aiutare Zelensky e la popolazione ucraina innanzitutto è di dirgli che qualche volta può mettere anche abiti civili”.

Ora, chi scrive si è masochisticamente inflitto, per questi due lunghi anni di guerra, tutta la inarrivabile Selecao televisiva di finti realisti, autentici utili idioti putiniani, pupazzetti prezzolati (copyright by Mario Draghi) e leccastivali in servizio permanente effettivo. Chi scrive, probabilmente oppresso dall’indefinita sensazione di avere qualche significativa colpa da espiare, non si è sottratto al tour dei peggiori bar dell’etere, frequentati da un’eterogenea fauna di veterocomunisti che non hanno mai digerito la sconfitta e sognano la rivincita, fascioreazionari che ammirano in Putin l’uomo forte opposto alla “depravazione dell’Occidente”, cattolici pacifisti e terzomondisti ringalluzziti da un papato quantomeno estraneo (eufemismo) all’Occidente, conservatori iperrealisti che usano ancora, forse per sentirsi giovani, concetti démodé del genere “stati cuscinetto”.

Ebbene, anche chi si è sottoposto a questi test di resistenza epatica non pensava si potesse arrivare a tanto. Ad una sortita, quella di Conte, che polverizza il precedente record di oscenità fin qui detenuto dal cartello esibito da alcuni pacifinti sgambettanti tra Perugia e Assisi: “meglio la resa della difesa” (cartello che sarebbe oggi perfetto all’indirizzo dei terroristi di Hamas, ma che è inopinatamente scomparso in quanto non funzionale alla narrazione antisraeliana su Gaza).

Ma dove risiede il surplus di oscenità delle parole di Conte? Beninteso, esse non hanno nulla a che vedere con i cascami novecenteschi dei dinosauri di cui sopra. Persino la chincaglieria ideologica presuppone infatti una cornice di riferimento che al Nostro, all’uomo che esorta a “ricreare la fiducia dell’8 settembre” e che non rammenta il nome del misterioso “congiunto” del presidente Mattarella, non appartiene.

No, Conte è più basico e contemporaneo, solletica e nel contempo alimenta il fastidio, l’irritazione verso l’uomo Zelensky che sa bene essere diffuse in parte dell’opinione pubblica italiana. Da due anni è in corso, chissà se del tutto spontanea, un’”operazione antipatia” verso Zelensky nel cui solco Conte subdolamente s’incunea. Un’operazione che, in un grottesco ribaltamento di ruoli e di responsabilità, identifica il perdurare della guerra non nel volto dell’aggressore, ma in quello dell’aggredito. Per molti italiani, diciamolo, la presenza stessa di Zelensky è fonte di irritazione: se Zelensky non ci fosse, se Putin lo avesse eliminato, se avesse accettato il salvacondotto degli americani, se non si ostinasse a difendere la libertà e la sovranità del suo paese permettendosi oltretutto di incarnare quella Resistenza di cui pensavamo di avere il monopolio liturgico, se soprattutto la smettesse di chiedere armi, la guerra finirebbe come d’incanto. E noi, si sa, siamo stanchi della guerra, qualunque cosa ciò voglia dire giacché non si comprende bene di cosa siamo stanchi. “Signora mia, dopo il Covid ci mancava solo questa war fatigue!” Noi avremmo solo tanta voglia, per dirla con Cioran, di tornare metaforicamente a rintanarci nelle osterie a dibattere del grado di cottura della bistecca e dell’ultima annata di Bourdeaux senza che nulla di quel che accade fuori ci riguardi.

Poiché però un residuo di ipocrisia e pudore spesso trattiene dal dire queste cose, ecco allora che, in uno slittamento dialettico se possibile ancor più grottesco e drammaticamente inadeguato alla tragedia in corso, lo sbrigativo riconoscimento di rito delle ragioni dell’Ucraina viene bilanciato dalle riserve estetiche o addirittura di look sul personaggio Zelensky. Dai bar ai salotti borghesi (con netta prevalenza dei secondi) è tutto un: “sì certo, poveri ucraini, però sai che quel Zelensky non mi è simpatico, poi sempre con la mimetica…”.

Conte annusa tutto questo (ha l’olfatto sviluppatissimo del populista doc), lo assorbe con la sua collaudata indifferenza (i contenuti sono fungibili come i possibili partner di governo) e in un contesto, quello bellico, nel quale più che mai occorrerebbero leaders e non politici follower, lo propina in tv. Così, ad un leader sottoposto da due anni ad una straordinaria tensione , impegnato a difendere ogni giorno metri di territorio, vite umane, case mentre l’insipienza occidentale mette in qualche misura in pratica la ricetta letale propagandata da quelli come Conte, a quest’uomo suggerisce proritariamente di indossare abiti civili. Più consoni, è la melliflua e ipocrita spiegazione, a prospettive di pace che semplicemente non esistono (come capirebbe anche un bambino che ascoltasse il Cremlino). Più consoni, in realtà al bisogno di Conte e della sua gente di rimuovere la guerra, di espungerla dal proprio orizzonte concettuale (avendocene uno) come si è fatto da ottant’anni a questa parte. Più consoni, soprattutto, alla firma, da parte di Zelensky, di quella resa che Conte e soci non hanno neppure l’onestà intellettuale di prospettargli.

Conte ieri era l’uomo del giorno e purtroppo non per lo scandalo suscitato dalle sue parole. In fondo è il vero vincitore delle regionali in Sardegna. Sinistra e centro tendono ormai a considerarlo tutti indispensabile. Ora, a nessuno sfuggono i numeri, la logica delle alleanze, la misura di cinismo necessaria perché l’azione politica non si riduca a nobile, ma sterile testimonianza. Va bene tutto, ma c’è un limite. Lo tracciò efficacemente un grande europeista come Jacques Delors: “Da Pierre Mendès-France ho imparato una grande lezione: è meglio perdere un’elezione che perdere l’anima. Un’elezione si può rivincere dopo cinque anni, che vuole che sia? Ma se si perde la bussola, o si perde l’anima, per ritrovarle ci vogliono generazioni.  Ci riflettano quanti si accompagnano all’azzimato collaborazionista in pochette. Meglio la mimetica.

Giulio Massa  

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