L’elezione di Macron e noi
L’attesa è finita. Le presidenziali francesi erano l’evento politico più importante e quello più temuto perché la Francia è il numero due dell’Europa e perché è qui che il movimento anti euro, nazionalista e sovranista ha raggiunto, grazie al Front National di Marine Le Pen un consenso tale da portarla ad un passo dalla vittoria. A differenza della Brexit, se la Le Pen fosse diventata Presidente della Repubblica e se avesse tenuto fede alle sue promesse, la costruzione europea sarebbe crollata e gli stati europei avrebbero dovuto ridefinire i loro rapporti reciproci e, soprattutto, quelli con le grandi potenze economiche e militari (Usa, Russia, Cina). E così ci saremmo tenuti la globalizzazione e ci saremmo anche dovuti sottomettere ai più forti (questo sarebbe il capolavoro dei sovranisti).
Per fortuna nulla di tutto ciò accadrà. L’elezione di Macron segna un punto di svolta che nemmeno un risultato negativo delle elezioni legislative a giugno con un’Assemblea Nazionale nelle mani dei partiti tradizionali potrà cancellare.
Che i voti per Macron siano stati espressi solo in parte a favore del suo europeismo e che vi siano stati molti astenuti e molte schede bianche non oscura il clamoroso successo di un movimento giovane che volutamente è fuoriuscito dagli schemi consueti della politica francese. Giovane, ma non improvvisato né superficiale. Anzi, a differenza dei movimenti di contestazione della politica tradizionale che abbiamo conosciuto in Italia come il M5S, il movimento di Macron si è distinto per un programma ambizioso e realistico con una forte visione strategica ed ideale. La scelta europeista ne è il fulcro ed è la dimostrazione del coraggio e della lungimiranza con la quale si è affrontato un tema così controverso eppure così essenziale come l’Europa. Una scelta non fatta di declamazioni retoriche, ma di proposte concrete a cominciare dalla istituzionalizzazione dell’eurozona con un parlamento, un bilancio e un esecutivo.
Non va sottovalutato che la candidata dell’estrema destra con la parola d’ordine del nazionalismo, del ritorno alla sovranità monetaria e della lotta agli immigrati è arrivata al ballottaggio prendendo circa 12 milioni di voti. Si è detto che dentro ci sono i delusi, gli arrabbiati, i disperati, gli scettici. La critica all’Europa si è espressa anche nel voto a Mélenchon. Macron dovrà dimostrarsi capace di recuperare una parte degli scontenti.
Ciò che conta è che con il nuovo presidente sembra avviata a soluzione in Francia la crisi di leadership che ha indebolito i più importanti paesi europei negli ultimi cinque anni passati. Tra presidenza debole in Francia, crisi in Italia e stallo in Spagna ad un certo punto la Germania era rimasto l’unico grande stato europeo guidato da un governo stabile e forte (per quanto anch’esso insidiato da un forte movimento nazionalista).
Una crisi di leadership che non riguardava solo gli stati, ma coinvolgeva in pieno una Unione Europea incapace di reagire alla sua crisi e agli eventi epocali che minacciavano di travolgerla e priva di una strategia.
Ora le cose sono più chiare. Lo saranno ancora di più se a giugno En Marche otterrà abbastanza voti da poter sostenere il governo del nuovo Presidente e se a settembre la Germania eleggerà (come sicuramente accadrà) senza traumi un cancelliere e una maggioranza che confermeranno la scelta europea.
A questo punto bisognerebbe dire qualcosa sulle elezioni italiane che dovrebbero chiudere il ciclo elettorale europeo. Purtroppo l’Italia, dopo il referendum del 4 dicembre e la bocciatura della legge elettorale da parte della Corte Costituzionale, si conferma una delle maggiori fragilità dell’Eurozona. L’elettorato ce l’aveva con il governo, voleva protestare e ha respinto una riforma costituzionale razionale e pienamente giustificata.
Che dire? Speriamo che qualcuno riesca a recuperare anche da noi una parte degli scontenti. Una folla arrabbiata che protesta contro tutti e che rifiuta ogni innovazione in permanente caccia al complotto non serve a nulla
Claudio Lombardi
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