Ma cos’è questo federalismo? (di Claudio Lombardi)

Il Presidente della Corte Costituzionale Ugo De Siervo ha dichiarato in questi giorni, a proposito del controverso decreto sul federalismo municipale (respinto nella bicamerale istituita in Parlamento per l’esame dei decreti, approvato dal Consiglio dei Ministri, ma respinto dal Presidente della Repubblica per gravi vizi procedurali), che utilizzare tale definizione è “una bestemmia”, un “abuso linguistico” poiché quella proposta dal Governo è una semplice “legge di autonomia finanziaria dei comuni”. Secondo De Siervo, inoltre, “è improprio usare il termine federalismo per tutto ciò che sta accadendo in Italia” perché “con il termine federalismo si spaccia ciò che è autonomismo degli enti locali” con la conseguenza che “con la bocca si parla di federalismo, che sarebbe qualcosa di più, e nella realtà si fa qualcosa di meno del regionalismo”.

Regionalismo che è sempre stato presente in Costituzione, ma con la riforma del Titolo V della Costituzione che risale al marzo 2001 (legge n. 3 entrata in vigore dopo referendum il 18 ottobre 2001) sembra che si sia andati oltre questa dimensione. Così oltre che dopo dieci anni quella riforma ancora non è stata attuata. Vediamone i punti principali attraverso tre articoli della Costituzione.

L’articolo 114 sancisce che la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato. I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni vengono definiti enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni.

L’articolo 117 stabilisce che la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni ed elenca le materie di esclusiva competenza statale e quelle a competenza concorrente lasciando alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato.

L’articolo 119 attribuisce ai Comuni, alle Province, alle Città metropolitane e alle Regioni autonomia finanziaria di entrata e di spesa fondando questa autonomia su risorse autonome che consistono in tributi ed entrate propri e in compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibili ai rispettivi territori. Alla legge dello Stato spetta istituire un fondo perequativo per i territori con minore capacità fiscale per abitante. Lo stesso articolo stabilisce che le risorse così definite debbano consentire ai Comuni, alle Province, alle Città metropolitane e alle Regioni di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite.

Gli elementi costitutivi del federalismo all’italiana (l’Italia nasce come stato unitario e non come federazione di stati diversi) ci sono tutti: identità, funzioni e poteri, risorse. È l’attuazione delle norme costituzionali che arriva tardi e male e che deve preoccupare per il rischio che, dietro la drammatizzazione che viene fatta sul federalismo e sui decreti che lo dovrebbero realizzare si nasconda, in realtà, un tentativo di diminuire la spesa per i servizi pubblici mettendo le Regioni e gli enti locali nella condizione di aumentare l’imposizione fiscale o di tagliare le prestazioni.

Non che non vi sia bisogno di tagliare la spesa pubblica che deriva dalla pressione di gruppi di affaristi e che porta allo spreco e alla corruzione. Di questo taglio vi è un gran bisogno, ma non c’è bisogno di richiamarsi al federalismo per farlo. Le avventure delle cricche della Protezione civile e dei rifiuti in Campania così come pure l’allegra finanza della Regione Sicilia dimostrano che c’è molto da risparmiare colpendo la corruzione, il clientelismo e i legami politica-criminalità organizzata.

Sacrosanto è che i cittadini possano riconoscere e valutare gli amministratori che sono responsabili sia delle tasse che delle spese. Ed è altresì giusto che, fatte salve le esigenze di contribuire alle spese statali (compresa la perequazione e la solidarietà), una collettività possa contare sulla sua capacità di produrre ricchezza e di amministrarla bene.

Il problema è che i decreti sul federalismo fiscale non sembrano contenere l’attuazione di questi principi.

Quello sul federalismo municipale (che sarà riproposto dal Governo al Parlamento) non sembra andare un mix di conferma di imposte già esistenti, di compartecipazione all’IVA e di creazione di nuove imposte. E poiché la base di partenza già sconta i tagli effettuati l’anno scorso e non vi è certezza di gettito per alcune imposte (cedolare secca sugli affitti) è ovvio che i comuni dovranno prepararsi a fronteggiare l’eventuale mancanza di entrate con un incremento della pressione fiscale locale (addizionali, tasse di scopo e di soggiorno) senza garanzie che ciò porti ad una riduzione della fiscalità destinata all’amministrazione centrale.

Inoltre gran parte delle entrate dei comuni si dovrà alla compartecipazione di imposte stabilite centralmente e questo non risponde all’esigenza di far coincidere responsabilità fiscale e di governo in sede locale. In pratica, ciò che potranno decidere e controllare i comuni porterà a nuova tassazione aggiuntiva rispetto a quella statale e l’abolizione dell’ICI sulla prima casa confermata dalla nuova IMU (toccherà le seconde case e gli immobili dove si lavora, ma non le proprietà ecclesiastiche anche se di tipo commerciale) toglierà ai comuni l’unica base imponibile seria sulla quale avrebbero potuto costruire una parte della loro autonomia fiscale. Diverso sarebbe stato se l’imposizione su tutti gli immobili fosse rimasta o ripristinata con diminuzione dell’IRPEF versata allo stato centrale. In questo caso si sarebbe spostato prelievo fiscale dal centro ai comuni.

Vedremo se il decreto sui costi standard sanitari che andrà in discussione nei prossimi giorni, e che proclama la buona intenzione di combattere gli sprechi e le inefficienze stabilendo criteri razionali per il binomio prestazioni-costi, riuscirà a mettere il riconoscimento di livelli essenziali di assistenza uguali per tutti come fondamento del nuovo sistema.

Anche in questo caso si intrecciano esigenze giuste (fare pulizia nei costi sanitari gravati dalle collusioni con gli interessi dei privati così come dalle ruberie e dagli sprechi che si annidano nella gestione pubblica) con rischi concreti (far pagare al cittadino una fetta più ampia delle prestazioni sia nel pubblico che ricorrendo al privato).

Ciò che non giova, in ogni caso, è la drammatizzazione del federalismo visto come la soluzione di tutti i mali, ma solo perché si identifica con la strategia di una parte politica. Federalismo cui certamente si avvicina il Titolo V della Costituzione, ma non i decreti oggi in discussione.

Se si decidesse di imboccare la via di una ristrutturazione dello Stato che parta da una riforma della politica fatta non solo con le leggi, ma con le culture e i comportamenti, per cancellare la separatezza dai cittadini e lo strapotere senza controllo (salvo quello della Magistratura) che c’è oggi allora il federalismo potrebbe avere un grande valore. Da solo, tradotto nelle norme oggi in discussione, non andrà lontano.

Claudio Lombardi

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