Ucraina: l’invasione della Crimea e la guerra in Donbass (4)

Alcuni estratti da un articolo di Andrea Braschayko pubblicato su www.valigiablu.it. Quarta parte. Qui la prima parte, Qui la seconda e Qui la terza.

Una pace fra Ucraina e Repubbliche separatiste era possibile?

L’ultima spiaggia per giustificare le proprie invasioni del 2014 e del 2022, oltre all’assunzione per cui l’Ucraina e potenzialmente l’Alleanza Atlantica siano un pericolo ai confini della Russia, è la tesi per cui sia l’Ucraina a non voler siglare una pace con Mosca. Se nel 2022 è assai più facile distinguere il pacifismo dalla totale sottomissione di un popolo, i concitati eventi del 2014-2015 hanno fornito un vantaggio per il Cremlino nel sostenere questa narrazione di fronte agli osservatori internazionali.

Mentre l’ATO, cioè la guerra in Donbas, entrava nella sua fase più attiva, che sarebbe durata tutta l’estate, il 25 maggio 2014 si tenevano le elezioni straordinarie per scegliere il nuovo presidente dell’Ucraina, dopo la fuga di Janukovyč. Il clima di eccezionalità nel sud-est del paese influenzò fortemente la tornata elettorale: i territori sotto occupazione in Donbas non parteciparono alle votazioni, mentre si registrò un forte astensionismo in diverse aree meridionali e orientali. (….)

Non solo in Donbas, ma anche a Odessa, Kharkiv e nelle aree centro-meridionali l’astensionismo supera in molti distretti il 50%, una situazione peculiare rispetto alla tradizionale omogeneità nella percentuali di votanti tra regioni nelle elezioni precedenti.

A stravincere le elezioni, con il 54,7% (unica vittoria nella storia ucraina al primo turno), è Petro Porošenko, un oligarca nell’industria del cioccolato e proprietario del canale informativo Kanal, entrato in politica a fine anni ‘90, partecipando alla costituzione proprio del Partito delle Regioni, dal quale però era subito fuoriuscito, fondando il proprio partito di centro-sinistra Solidarietà (oggi Solidarietà Europea).

Nell’alveo di altre vaghe promesse, come l’accelerazione dell’integrazione europea, Porošenko si impegna di fronte ai suoi elettori a far cessare il conflitto in Donbas in due settimane.

Il 20 giugno 2014, pochi giorni dopo l’insediamento, Porošenko dichiara un cessate il fuoco unilaterale della durata di una settimana. Al contempo, propone un piano di pace in quindici punti, tra cui i principali sono: 1) garanzie di sicurezza per tutte le parti, 2) amnistia per chiunque deponga le armi fra i separatisti, 3) corridoi per far rientrare i mercenari russi, 4) decentralizzazione del potere a favore del Donbas e 5) protezione dello status della lingua russa.

Putin risponde a Porošenko intimandogli di parlare coi separatisti e non con Mosca, mentre il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov lo definisce addirittura un ultimatum. Le forze filorusse delle repubbliche popolari rispondono di perseguire unicamente la propria indipendenza, e l’unica condizione è il ritiro delle truppe ucraine dalle oblast’. (…)

Porošenko, che parlerà di trentacinque violazioni del cessate il fuoco in un’unica notte, dirà che non ci sono condizioni per continuare a trattare. I combattimenti riprendono entrando nella loro fase più intensa, in cui gli ucraini guadagnano terreno, mentre al contempo cresce il sostegno militare e logistico del Cremlino alle truppe separatiste. La guerra non si ferma nemmeno dopo la già nominata strage, causata dai filorussi, dell’aereo di linea malese MH17, abbattuto mentre sorvola i cieli dell’oblast’ di Luhans’k sulla rotta Amsterdam-Kuala Lumpur. Quando l’esercito di Porošenko sembra pronto a entrare nelle periferie di Donec’k e Luhans’k, di fatto sembra avvicinarsi la chiusura della guerra, in un contesto tuttavia tragicamente rischioso: la prospettiva di due imprevedibili battaglie urbane, in aree ad altissima densità abitativa con armamenti bellici di epoca sovietica.

I russi rispondono aumentando l’ingerenza. Il 22 agosto centinaia di mezzi russi mascherati da convogli umanitari varcano illegalmente il confine ucraino, e l’Ucraina convoca una riunione del Consiglio di sicurezza dell’ONU, nella quale la Russia ha però diritto di veto. Il giorno dopo, una colonna di mezzi con targhe russe viene distrutta dagli ucraini nei pressi del confine tra i due stati.

Due giorno dopo, il leader separatista Zacharčenko annuncia un’offensiva su tutti i fronti, fiducioso del crescente aiuto di Mosca, oltre ai mezzi militari sono sempre più battaglioni inquadrati nelle Forze armate russe ad arrivare in Donbas. Una delle prove più clamorose, e infatti Kyiv porta i prigionieri di guerra davanti alla stampa, è la cattura da parte degli ucraini di dieci soldati della 98a divisione aviotrasportata delle VDV russe. (…)

Il 5 settembre in Bielorussia, è firmato un accordo di cessate il fuoco tra il Gruppo Trilaterale di Contatto e i due leader delle autoproclamate Repubbliche, Donec’k e Luhans’k.

Decisiva è la mediazione di Francia e Germania, favorevoli a un veloce riconciliazione con la Russia, che non viene individuata come parte in causa del conflitto. A posteriori, è questo il grande errore dei Protocollo Minsk I (e del successivo Minsk II), e ne segna una strutturale fragilità.

A una prima impressione, gli accordi sono favorevoli per l’Ucraina: nessun riconoscimento di autonomia o indipendenza per le regioni secessioniste. Il Parlamento ucraino recepisce in appena undici giorni le direttive previste dai principali punti dei dodici totali previsti dal Protocollo di Minsk. Si arriva così alla legge 1680 della Verkhovna Rada “Sull’ordine speciale di autogoverno locale in alcuni distretti delle oblast’ di Donec’k e Luhansk”. La legge, giornalisticamente nota come “Sullo statuto speciale del Donbas”, “ottempera ai punti 3 e 9 dell’accordo di Minsk e prevede 4 misure importanti: l’amnistia (punto 6); il libero uso della lingua russa in pubblico e in privato in scuole istituzioni media; nomina autonoma di tribunali locali; una polizia locale controllata dai sindaci”.

L’applicazione delle modifiche legislative prevedeva una finestra di validità temporanea fissata a tre anni, subordinata allo svolgimento di elezioni libere e regolari (secondo alcuni criteri prefissati, tra cui presenza di osservatori internazionali e libera circolazione della stampa) nelle province occupate in Donbas.

Non avviene nulla di tutto ciò. L’OSCE si sbilancia già alcuni giorni prima delle elezioni del 2 novembre: la campagna elettorale nei territori separatisti ha violato tutte le previsioni dei Protocollo di Minsk, mentre le stesse autorità russe dichiarano di rispettare, ma non riconoscere, gli esiti del voto.

Il fallimento degli accordi sorprende poco, poiché anche il cessato il fuoco aveva conosciuto violazioni fin da subito. Già il 5 settembre, mentre i firmatari si stringevano la mano, 35 militari del battaglione Aidar venivano uccisi in un’imboscata delle truppe separatiste. Pochi giorni dopo riprendono i combattimenti feroci all’aereporto di Donec’k, da cui nasce l’epopea della resistenza cyborg ucraina, mentre il leader separatista Zacharčenko dichiara di voler ripristinare il controllo su tutti i territori persi nell’offensiva ucraina precedenti al Protocollo di Minsk.

La situazione prosegue con controffensive locali da parte di entrambe le parti. Il sostegno materiale occidentale all’Ucraina è in quel momento irrisorio di fronte alla portata del nemico, foraggiato dalla Russia potenzialmente senza limiti: negli ultimi mesi del 2014, ufficialmente, arrivano 118 milioni di dollari in aiuti umanitari e militari da parte degli Stati Uniti e circa 18 dalla Lituania.

Il conflitto si infiamma definitivamente a gennaio del 2015. (…)

Il 12 febbraio, dopo 17 ore di colloqui, gli stessi partecipanti del cosiddetto Formato Normandia di settembre, firmano il Protocollo di Minsk II. Cosa cambia? I punti passano da 12 a 13, e il più rilevante è l’undicesimo: “Effettuare la riforma costituzionale in Ucraina attraverso l’entrata in vigore, entro la fine del 2015, della nuova costituzione che preveda come elemento cardine la decentralizzazione e prevedere una legislazione permanente sullo status speciale delle aree autonome delle regioni di Donec’k e Luhans’k  che includa […] la non punibilità e la non imputabilità dei soggetti coinvolti negli eventi avvenuti nelle citate aree, il diritto all’autodeterminazione linguistica, la partecipazione dei locali organi di autogoverno nella nomina dei Capi delle procure e dei Presidenti dei tribunali delle citate aree autonome”.

Il primo luglio 2015 Porošenko presenta al Parlamento una bozza delle modifiche costituzionali di decentralizzazione a favore delle province di Donec’k e Luhans’k. Il 31 agosto, mentre la Rada vota la riforma, si verificano violente proteste di alcuni volontari ultranazionalisti dell’ATO, contrari a concessioni autonomiste ai separatisti. (…)

Il governo ucraino si riscopre vulnerabile alle istanze oltranziste di alcuni suoi battaglioni nazionalisti, anche dopo averli inquadrati nell’esercito. (….)

Il ruolo dell’estrema destra nella politica interna ucraina rimarrà insignificante a livello elettorale, sebbene rinvigorito dalla possibilità di un mainstreaming culturale, i cui risultati tuttavia sono stati incerti e sofferti da una buona parte della popolazione, la cui opinione sarà decisiva nel ballottaggio del 2019 tra Porošenko e l’outsider Zelensky.

Il fallimento degli accordi è dovuto, invece, al mancato rispetto della clausola primaria del Protocollo di Minsk II, cioè il verificarsi di elezioni locali regolari nei territori occupati. Come prevedibile, anche questo scenario verrà disilluso: i separatisti rimandano le elezioni per tre anni fino al 2018 (quando Zacharčenko rimarrà ucciso), e senza sorprese anche questa tornata elettorale non rispetterà nessuno dei criteri previsti da Minsk II.

La riforma costituzionale sulla decentralizzazione cade così nel vuoto (verrà ritirata nel 2019), e dopo la cessazione del regime anti-terroristico in Ucraina nel 2018, il nuovo progetto di legge 2268 in relazione ai territori occupati sarà improntato sul riconoscimento dell’aggressione russa e una futura quanto vaga de-occupazione coercitiva, piuttosto che verso un graduale reinserimento dei territori separatisti nello Stato ucraino, uno scenario ormai percepito come impraticabile. Durante i mesi di crisi antecedenti la guerra del 2022, Zelensky ritirerà la proposta di legge per venire incontro a Putin. Un segnale di come qualsiasi dottrina amministrativa dell’Ucraina nei confronti del Donbas fosse tutto sommato indifferente ai più grandi piani di invasione russi.

Tornando alla prima guerra del Donbas, essa entrerà, dalla seconda metà del 2015, nella definizione di “conflitto a bassa intensità”: nei successivi sette anni, morirà un totale di civili inferiore al solo mese di gennaio 2015. La propaganda russa prenderà la palla al balzo, alla vigilia dell’invasione su larga scala, per definire quello del Donbas un conflitto dimenticato, un’ingiustizia ucraina a cui porre rimedio con la violenza.

(continua)

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